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Respighi insegnante
 

 

Intervento del Vice Presidente Anziano dell’ Accademia Nazionale di S. Cecilia, M° Carlo Alberto Pizzini alla “Tavola rotonda”, tenutasi nella Sala Accademica, nei giorni 30 Novembre e 1 Dicembre 1979 in occasione del Centenario della nascita di Ottorino Respighi.

 

Nel 1927 – allora studente nella Classe di Contrabbasso del Conservatorio romano di S.Cecilia – venni scelto dal direttore, Maestro Giuseppe Mulè, per redigere e pronunciare in questa storica Sala, così ricca di prestigiose memorie, il breve discorso che precedette il Concerto commemorativo del Centenario della morte di Beethoven, concerto che ebbe luogo il 27 Maggio.
Dopo 52 anni, in seguito al cortese invito rivoltomi dal Presidente dell’Accademia, torno a parlare in questa sala, quale testimone dell’opera d’insegnante, svolta da un grandissimo Musicista, la cui testa leonina ricordava molto quella di Beethoven. Parlo di Ottorino Respighi.
Considero un dono del Signore, quello di aver avuto la fortuna e l’onore di essere suo allievo.
Entrai nella sua Classe per l’Anno di Fuga (6° del Corso di Composizione) ma non ricevetti molte lezioni, perché il  Maestro abbandonò l’insegnamento, per dedicarsi completamente alla sua attività artistica.
Dopo poco tempo, lasciai anche io il Conservatorio, per prepararmi al diploma di composizione, sotto la guida di un altro grande insegnante: il Maestro Cesare Dobici.
Conseguii nel Giugno del 1929, il Diploma di Magistero di Composizione, presso il Liceo Musicale “G.B. Martini” di Bologna.
Nel frattempo, sempre nel Conservatorio di S. Cecilia, era stato affidato a Respighi il Corso di Perfezionamento per Compositori, riservato ai Diplomati con media non inferiore agli 8/10.
Presentai domanda, venni accettato, mi venne assegnata una borsa di studio e per tre anni scolastici frequentai il Corso, traendone cognizioni ed esperienze preziose e determinanti per la mia vita di musicista.
Se ben ricordo Respighi doveva tenere annualmente 40 lezioni che divideva a seconda dei suoi impegni. Pertanto in certi periodi ne teneva tre alla settimana, in altri le lezioni erano molto distanziate e allora questi intervalli ci consentivano di lavorare di più e con maggiore tranquillità.
E’ cosa risaputa, e direi quasi inevitabile, che gli allievi di un grande artista finiscano per diventarne stilisticamente dei seguaci. Ebbene il primo merito del Respighi didatta, fu proprio quello di lasciare a ciascuno la propria personalità (beninteso a chi ne aveva) e il proprio stile, che lui, insegnante, controllava affinché ne fosse rispettata la coerente continuità.
Alcune volte, o per mancanza di estro, oppure di tempo, portavamo a scuola pagine buttate giù tanto per dimostrare di aver lavorato.
Il Maestro se ne accorgeva immediatamente e le respingeva. “Quando non si ha la possibilità di comporre, ci diceva, si possono fare altri lavori (per esempio delle trascrizioni, delle orchestrazioni) ma non bisogna mai forzare la disposizione del momento”.
Insegnava con grande impegno e si può dire “vivesse” i nostri lavori, come se fossero i suoi. Nel suo insegnamento si fondevano mirabilmente arte e grandissima esperienza, unite da una incredibile umiltà. Citava i suoi lavori soltanto per segnalarci quelli che lui riteneva fossero degli errori.
Nelle sue lezioni, e mi riferisco tanto a quelle del Corso comune, quanto a quelle del Corso di Perfezionamento, non interveniva mai nei problemi concernenti la “creazione”. Diceva: “Voglio che gli allievi si traggano d’impaccio da soli. E’ logico che ai giovani manchi l’esperienza, ma non devono mancar loro le idee. E io non voglio avere la responsabilità di creare degli apostati”.
Ordinariamente lasciava agli allievi la scelta del lavoro da comporre.
Per compilare gli “abbozzi” delle composizioni, il Maestro consigliava di usare dei mezzi fogli, scrivendo soltanto su una facciata. Con questo sistema, a fianco di ogni pagina scritta, ne restava una bianca, disponibile per correzioni, modifiche, aggiunte, senza che fosse necessario cambiare l’ordine dei fogli.
Respighi aveva una straordinaria abilità nel decifrare al pianoforte i nostri manoscritti, spesso scarabocchiati in fretta. Ma di solito, ciascun allievo suonava i propri abbozzi, aiutato dal Maestro, o dai colleghi, quando due mani non bastavano.
Respighi ascoltava con grande attenzione i nostri lavori. Guai a scambiarsi una parola in questi momenti: un’occhiata severa del Maestro “gelava” gl’incauti conversatori!
Talvolta, durante l’ascolto, si distraeva; allora cercava nel lavoro che stava ascoltando, la causa della sua distrazione. “Se mi sono distratto, diceva, è segno che è venuto a mancare l’interesse”. E analizzava la composizione, per trovare il punto che andava modificato.
Teneva alla “forma” in modo particolare e per essa faceva sacrificare anche delle buone pagine. Accadeva quindi che arrestasse l’esecuzione al pianoforte, dicendo: “La sua composizione finisce qui”. E alla osservazione dell’autore, rispondeva: “La sua composizione finisce qui. Metta le altre pagine in una busta e le conservi, perché potrebbero esserle utili in avvenire”.
Non si penserebbe mai che un compositore di tante ricchissime partiture consigliasse di osservare una più che oculata economia strumentale, direi quasi “avarizia”. Dosava lo strumentale riservandosi a volte, un solo strumento a percussione, per ottenere un determinato effetto.
Sfogliava le partiture con grande attenzione e, anche se talvolta sembrava che voltasse le pagine rapidamente, nulla sfuggiva al suo occhio vigile ed esperto.
Avendo visto un passo di agilità, affidato all’oboe, ma non adatto per questo strumento, si affrettò a richiamare l’attenzione dell’autore, imitando con la voce il suono dello strumento e muovendo le mani come se ne toccasse le chiavi. Risultato: nessuno di noi avrebbe mai più affidato all’oboe un passo del genere!
Io avevo l’abitudine, lavorando a casa, di annotare sui margini dei fogli, i vari interrogativi da rivolgere al Maestro. Così evitavo dimenticanze. Un giorno mi disse: ”Lei è troppo scrupoloso, mi sembra Martucci! Si ricordi che in orchestra passa tutto!”. E un’ altra volta che ero indeciso nel sovrapporre differenti tonalità: “Coraggio, salti il fosso!”.
Se vedeva, in partitura, “entrare” uno strumento senza l’indicazione dinastica, chiedeva regolarmente: “Come suona?  Forte?  Piano?”.
Nel consigliare una modifica, usava generalmente l’espressione “Io farei così”.
Desiderava che ci rendessimo sempre conto del “registro” in cui lo strumento veniva usato. Per risolvere eventuali difficoltà consigliava: “Riducete tutto allo schema armonico”.
Come i grandi maestri del Rinascimento, Respighi era per noi anche un Maestro di vita, un esempio di onestà, serietà, laboriosità. Esigente e severo, ma anche Padre affettuoso e generoso. All’occorrenza non aveva scrupolo di dire amare verità. Ricordo che a un giovane straniero che frequentava il Perfezionamento, un giorno disse, in presenza di tutti gli altri allievi: “Io ritengo sia inutile che lei frequenti le mie lezioni, perché non capisco se la sua musica sia fatta bene o sia fatta male. Vede: in questa sua “sonata per violino e pianoforte” sembra che il violino non abbia capito quale musica doveva eseguire ed abbia così preso la parte di un’altra composizione”. (Anni dopo venni a sapere che questo allievo si era dedicato alla critica musicale).
Al momento opportuno, ma non frequentemente, sapeva anche lodare; un allievo al Perfezionamento, terminò un poema sinfonico con una perorazione fortissima, in mi bemolle maggiore. Alla fine dell’ascolto (Respighi lo seguiva con la partitura) disse: “Bravo!” e di suo pugno scrisse “O.K.” sull’ultima pagina e aggiunse: “Le diranno come dissero a me, a New York, dopo l’esecuzione de “I Pini “ al Carnegie Hall: Complimenti a lei e alla cupola!”.
Durante le lezioni, eravamo chiamati anche alla lavagna, per risolvere i quesiti posti dal Maestro.
Procedimenti musicali, studio di disposizione di “parti” per ottenere particolari sonorità, orchestrazioni di “passi” speciali, etc..
Di solito le lezioni di Perfezionamento avevano termine con l’esecuzione delle fughe per organo di Bach, nella riduzione per pianoforte a quattro mani e di quelle del “Clavicembalo ben temperato”, anche queste eseguite a quattro mani. Respighi sedeva ai “bassi”.
Ci ripeteva: ”Se volete dedicarvi alla composizione, nutritevi di Bach e Beethoven finchè volete, ma non toccate gli altri”. E ancora: “Non leggete mai le critiche dei vostri lavori: una critica errata o malevola, potrebbe avere su di voi funesti effetti. Io non leggo mai le critiche dei miei lavori!”
Era naturalmente a conoscenza di tutta la migliore produzione contemporanea e non nascondeva la sua ammirazione per vari compositori. Fra questi Puccini, Zandonai, del quale una volta, al termine della lezione, eseguimmo il finale del I Atto della “Francesca da Rimini”.
L’insegnamento non era limitato alla musica strumentale, ,ma comprendeva anche quella vocale ed operistica. Tra l’altro, ci teneva al corrente degli ultimi accorgimenti tecnici usati nei maggiori teatri. Era una tradizione, almeno negli anni in cui frequentai il Perfezionamento, di battezzare una composizione sinfonica dopo averne ultimata la partitura. Fu Respighi a dirmi di dare il titolo “Strapaese” allo studio di ambiente paesano laziale che io avevo composto sotto la sua guida. Per ascoltarne la prima esecuzione all ' EIAR di Roma, il Maestro venne apposta da Piazze (vicino Siena) dove si trovava in compagnia di Toscanini.
Ennio Porrino compose il suo bel poema sinfonico “Sardegna” mentre frequentava il Perfezionamento. Dopo averne composto l’austera, tragica prima parte, Porrino se ne mostrò scontento e una volta venne a lezione con un’altra prima parte. Respighi rimase stupito e gliene chiese il perché. “Mi aveva stancato” rispose Porrino. Ma il Maestro l’obbligò a riportare la musica ripudiata, che restò come inizio dell’ottima composizione.
A Giovanni Salviucci, altro musicista di grande valore e formidabile contrappuntista, consigliava di perdere l’abitudine “di veder camminare otto parti”.
Nel mio secondo anno di frequenza del Perfezionamento, avevo quasi terminato l’abbozzo del mio “Poema delle Dolomiti”. Portai al Maestro le ultime 16 battute, ma questi non le approvò. Riposi i fogli nella borsa, in attesa che l’estro mi fosse più propizio. Quel giorno, uscendo dalla classe dopo la lezione, mentre scendevamo le scale dell’Accademia, il Maestro si fermò e, come se continuasse un ragionamento fatto dentro di sé, si rivolse a me dicendomi: “Perché se io avessi dovuto scrivere il finale, lo avrei scritto come lo ha scritto lei. Invece bisogna trovare una soluzione diversa”. Pensate quale incoraggiamento ne trassi! Due giorni dopo il finale era approvato.
Io mi interessavo anche di direzione d’orchestra e ricevetti da Respighi preziosi consigli. Quando nel Novembre del 1931 diressi il mio primo concerto all’EIAR milanese (allora in via Gozzadini) volle che mettessi in programma lo “Scherzo” della ”Sinfonia in stile classico” che io avevo composto durante il I Anno del Perfezionamento.
Avendogli chiesto se era giusto il mio sistema di contare le battute per dirigere l’Allegro Vivo, contrassegnato col n° 42 della partitura delle “Feste Romane”, mi rispose: “Ho avuto la soddisfazione di vedere le battute numerate sulla partitura di Toscanini” e aggiunse: “Mancava però una battuta: erano 17 anziché 18. Me ne sono accorto soltanto quando ho diretto personalmente il mio lavoro. Lo dissi poi a Toscanini che mi rispose: “Ecco perché, in quel punto, mi sembrava che qualcuno mi fermasse il braccio!” (Per la storia : va ripetuta la 17° battuta).
Le lezioni avevano luogo abitualmente al Conservatorio che, in quei tempi, occupava il secondo piano del palazzo dell’Accademia. Qui, in fondo al corridoio, a destra, era sistemata la Classe Respighi, in un’aula situata nell’angolo formato da Via Vittoria col Vicolo dell’Orsoline. Nell’aula di fronte Alfredo Casella teneva il suo Corso di Perfezionamento di Pianoforte.
Alcune volte, per la lezione del Perfezionamento, eravamo convocati nella villa del Maestro, chiamata “I Pini”, in Via della Camilluccia. Una zona allora molto solitaria e considerata un po’ come le…colonne d’ Ercole. L’autista del Maestro veniva a prenderci con la macchina a Piazzale di Ponte Milvio. Una volta, ero solo, venne personalmente il Maestro, che non aveva ancora la patente di guida. “Si fida ?” mi chiese. Ed io: “Maestro, voglio darle anche questa prova di stima!”.
Molti anni dopo la sua morte, Elsa Respighi trasformò lo Studio del Maestro  “I Pini”, in una suggestiva  Cappella, dichiarata subito Monumento Nazionale.

Mi sia consentito di concludere questo mio “intervento” con un episodio poco noto della vita di Respighi. Egli compose “Fontane di Roma” nel 1916. Il Poema Sinfonico venne scritto in gran parte a Roma, nella Pensione Marchesini in prati di Castello, dove Respighi alloggiava in quel tempo, e parte a Bologna (durante le vacanze) e in una campagna nei pressi di questa città.
La prima esecuzione ebbe luogo a Roma, al Teatro Argentina, l’11 Marzo del 1917, sotto la direzione di Antonio Guarnirei.
L’accoglienza non fu evidentemente quella che il Compositore si aspettava. Rientrato nella sua camera, dopo il concerto, buttò la partitura sul letto e disse: “ E’ un lavoro mancato, ne scriverò un altro”. Ma non era così e il tempo gli rese presto giustizia: Arturo Toscanini nel 1918 è invitato a dirigere un concerto alla Scala e chiede a Respighi un suo lavoro per metterlo nel programma. Non avendone altri pronti, il Compositore manda le “Fontane”.
L’esecuzione è coronata da un successo trionfale, Ricordi telegrafa chiedendo di pubblicare il poema sinfonico.
Aveva così inizio il cammino luminoso di questo grandissimo e caro Musicista bolognese, che tanto amò Roma, e che, nonostante i continui successi e la fama internazionalmente raggiunta, conservò inalterate l’umiltà e la semplicità, caratteristiche inconfondibili della vera grandezza.

Carlo Alberto Pizzini (1979)